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04 2007

Nel lavoro infinito di traduzione prende forma una mappa impossibile, si disegna l’Altro che ci cammina accanto

Anna Nadotti

«Not being a scholar, only an observer of life… so this is a personal view.»[1] Faccio mie queste parole di Nayantara Sahgal per mettere le mani avanti, per anticipare un punto di vista molto soggettivo, forse anche per sconfinare preventivamente.

 
Una premessa

Il mio lavoro di traduttrice mi ha abituata a stare su un confine sottile la cui precarietà non è per mia fortuna dovuta ad arbitrio e violenza, bensì alla pacifica coesistenza delle lingue, alla loro opera di rispecchiamento e anche di reciproca aggiunta o erosione di senso. Da ciò, dal disincanto e insieme dall’affascinante democrazia delle lingue, e dalla frequentazione assidua del subcontinente indiano, mi viene, credo, un bisogno di guardare alle mappe con molta cautela.

«Non è la geografia ciò che conta, bensì il modo in cui le mappe vengono sovrapposte al territorio. Tutte le mappe sono piatte, ma non tutto ciò che è piatto è una mappa», notava con sottigliezza Sanjay Chaturvedi, docente e coordinatore del Centro studi di geopolitica dell’università di Chandigarh (la città con cui Nehru, dopo la Partizione, volle in qualche misura compensare l’India della perdita di Lahore e di cui affidò il progetto a Le Corbusier[2]), durante un seminario a Paris VIII [3]. In inglese, la frase di Chaturvedi ha un suono curiosamente onomatopeico, «It isn’t geography that counts, but how meaning maps have been overlapped to the territory. All the maps are flat, but not all flatness is a map»: si ha quasi l’impressione di sentire il rumore dei grandi fogli di carta millimetrata che vengono calati sul terreno, il fruscio dei lucidi con le linee nere dei confini tracciate a china che si sovrappongono, dividendolo, a ciò che era omogeneo, unitario, comune. Salvo poi, a distanza di tempo, risollevare quelle fragili mappe di significato e spostare altrove i confini con il loro cruento fardello di tradizioni inventate.

«La cartografia è una scienza europea finalizzata al controllo (divide et impera… and leave) e funzionale al potere. La nostra è una geografia simbolica dove vicinanza e lontananza sono relativi. Ma non ci perdiamo», mi diceva Krishna Menon, co-fondatore e direttore dell’Istituto Superiore di Architettura di Delhi, e sorrideva svoltando da una delle grandi avenue della nuova Delhi, capitale del Raj britannico, in una strada più stretta che s’addentra nel labirinto di vicoli di un’antica enclave musulmana, per approdare alla spianata terrosa che circonda uno degli edifici più belli della città, la Khirkhi Masjid, la moschea delle finestre (1380), un distillato di armonia, quelle mura massicce – chiuse dunque, e che tuttavia al secondo piano si aprono all’esterno con un’insolita, preziosa infilata di finestre.

E Amitav Ghosh, nell’introduzione al suo Estremi Orienti, scrive: «Le mappe che abbiamo in testa corrispondono solo approssimativamente agli atlanti che aprivamo sui banchi di scuola: prendono forma nel segreto della nostra memoria, seguendo linee suggerite da conversazioni origliate, vecchie fotografie e libri che si ricordano a metà.»[4] Sono queste le identità con cui mi devo confrontare, quando traduco e leggo, con il loro consapevole posizionamento di soggetti de-territorializzati – talora per forza, talora per scelta. Identità dilatate, sovrapposte, frutto di una molteplicità di appartenenze che è il derivato di una complessa e riconosciuta stratificazione storica, di cui il periodo coloniale è una tappa acquisita.

Ma c’è di più. In questo paese in cui ogni passo è un dilemma morale, c’è un dato linguistico cruciale, in quanto in India «la lingua è naturalmente, necessariamente, la traduzione»[5].

«Se la Bibbia fosse stata scritta in India, la storia sarebbe stata diversa. Basta guardare noi tre in casa, ognuno parla una lingua diversa! Eppure non regna il caos, abbiamo elegantemente schivato il problema parlando l’inglese. Mi torna comoda. Impedisce l’intimità e garantisce ai nostri rapporti una cortesia formale. […] Lei invece abbandona l’inglese e passa al kannada o all’hindi miscelando le lingue, il che aggiunge una sorta di effervescenza alle conversazioni con lei. È la più coraggiosa dei tre, si avventura su terreni per lei inconsueti, incurante dei rischi», scrive Shashi Deshpande in uno dei suoi ultimi romanzi.[6]

Quasi a farle da eco, C.S. Lakshmi dice: «Io scrivo in tamil, vivo a Bombay, sono cresciuta a Bangalore, ho studiato a Delhi e ho sposato un rajastano. Sono dunque una vera indiana. E sebbene io scriva in tamil, nella mia lingua entrano tutte le altre esperienze-lingua.»[7]

Non sono dunque le lingue diverse a creare il caos, il caos può nascere anche là dove si usano parole identiche. Né potrebbe essere diversamente in un paese dove la pluralità delle lingue: a) non coincide storicamente con fratture, bensì con una millenaria sedimentazione di civiltà; b) contraddice il sistema coloniale e utilizza, per dirsi, anche la sua lingua, ma assorbita e fatta propria, e suonata egregiamente su un diverso spartito; c) produce slittamenti che tendono a investire ogni ambito della vita intellettuale e della produzione culturale.[8]

 
Una mappa impossibile

Mi piace partire, nel disegnare una mappa impossibile, dallo straordinario lavoro di ricerca e documentazione su censura e autocensura condotto da un gruppo di studiose e scrittrici indiane, di cui danno conto tre volumi preziosi: The Guarded Tongue. Women’s Writing & Censorship in India, WORLD/Asmita Project 2001; The Tongue Set Free, Women Writers Speak about Censorship, WORLD/Asmita Project, 2002; Speaking in Tongues. Gender, Censorship & Voice in Hindi, WORLD/Asmita Project, 2002.

Un lavoro che è durato tre anni coinvolgendo studiose e scrittrici di ogni stato dell’India. Per descrivere il clima, la ricchezza di questi incontri lascio loro la parola: «When an unusual conclave of women took place on the outskirts of Hyderabad, far from the madding crowds. The interactions at the meeting could have amounted to no more than Babel: the 65 women writers from different parts of India spoke in as many as 11 tongues. But they made eminent sense to each other and to everyone else who had the privilege of listening to them at this unique literary event, a National Colloquium of women writing in India […].»[9]

Da questa potenziale e invece ragionevolissima Babele, in cui ogni donna presente ha saputo dare eminenza all’altra ascoltandola, sono nati tre volumi, in inglese, che contribuiscono a dare un quadro più ampio, più completo e, se posso dirlo, più suggestivo, della produzione letteraria nelle tante lingue del subcontinente.

Il bello è che di queste iniziative non si perdono le tracce, non si verifica quell’andamento carsico sul quale noi qui ci siamo tante volte interrogate. Ho l’impressione che il femminismo in India abbia messo radici diverse rispetto a quello italiano, radici aeree e radici che penetrano nel terreno in ogni direzione, ora scendendo in profondità, ora allungandosi e serpeggiando in superficie. Spuntano nei villaggi, nei ghetti miserabili delle metropoli, assorbono aria ed acqua senza timore di innesti e ibridazioni, proprio come le lingue. And Who Will Make the Chapatis?[10] Chi preparerà quel pane sottile che è alimento di base nell’intero paese. Questa domanda – rivolta dal marito a una donna di una zona rurale che voleva seguire un corso per potersi occupare dell’amministrazione del villaggio – trova le prime risposte nelle esperienze di alcuni consigli di villaggio, i panchayat, interamente composti di donne contadine alla cui formazione (tecnica, tecnico-amministrativa, sanitaria, ecc.) collaborano donne medici, ingegneri, architetti, urbaniste, economiste, scienziate, filmaker, scrittrici, in una trama fitta di relazioni politiche e culturali che, nel demandare ad altri la responsabilità di cuocere i chapati, individuano una chiave di sovversione dei ruoli produttivi che apre strade completamente inedite. Basti pensare a come il microcredito privilegia ormai le cooperative e la nascente imprenditoria femminile, e al ruolo di primo piano delle donne nella battaglia contro gli ogm.

«Aveva in mente un libro sull’India, l’aspetto e la tessitura di terra e cielo – e tra essi tutte le sfumature delle stagioni. La gente scriveva romanzi storici, ma qui c’era una geografia romantica quasi eccessiva per un solo paese. All’estremo nord si innalzava ancora la catena dell’Himalaya con i suoi sessanta milioni di anni, scagliata fuori da un mare scomparso. Nel lontano sud e per tre quarti del perimetro l’immensità dell’Oceano Indiano. Al centro i fiumi della storia, il Gange e il Brahmaputra, che viaggiavano attraverso chilometri e chilometri di pianura; infine le pianure stesse, punteggiate di contrasti: mesi di pioggia nella giungla tropicale e deserti bruciati dal sole. C’era la primavera dell’India […]. Bisognava pure che qualcuno descrivesse gli altipiani rocciosi le cui sorgenti, al disgelo, scendevano in torrentelli lungo i pendii. Era una grandiosa eredità oggettiva, senza un principio e una fine, con i suoi cicli immutabili di impassibile rinnovamento. La cultura era venuta dopo. Nutrita da questa penisola che si estendeva all’infinito. Qualcuno doveva tradurla in linguaggio.»[11]

Mai come in India ho avuto la sensazione di non poter contenere entro schemi prefissati l’oggetto delle mie osservazioni, della mia ricerca, senza dubbio letteraria in prima battuta, ma costretta a spostarsi via via ad altri ambiti, in un incessante andare e venire tra le discipline. La «geografia incredibile» e spesso incontenibile di questo paese sembra segnare ogni aspetto della sua vita, e la produzione culturale non fa eccezione.

Chi ha visto Lagaan, di Ashutosh Gowariker (2001), si è senz’altro reso conto di come una partita di cricket, affidata all’uso spericolato e sapiente di una camera a mano – una mano con una forte consapevolezza storica e geografica – possa farsi non solo metafora, ma descrizione di un processo storico, incisiva sintesi in technicolor della lotta per l’indipendenza, e persino del romance tra il premier Nehru e lady Mountbatten. Ma direi che Gowariker va oltre: nel momento in cui visualizza la delimitazione dell’improvvisato campo da cricket, trasforma il luogo in uno spazio pubblico, dove il soggetto coloniale diventa attore sociale, artefice della propria storia.

Restando nell’ambito delle produzioni cinematografiche ad alto budget ed altissima esposizione mediatica, direi che anche Monsoon Wedding, di Mira Nair, tra le pieghe del musical lascia intravedere una trama ben più fitta di sfumature sociali e antropologiche.[12] Ma spingendoci un po’ oltre, al di là di ciò che la grande distribuzione cautamente porta sugli schermi occidentali, troviamo produzioni indipendenti di estremo interesse (visibili purtroppo solo nei festival o nei circuiti del movimento no-global) quali War and Peace (India 2002): niente a che vedere con Tolstoj, bensì con Anand Patwardhan e Simantini Dhuru, filmaker e attivisti del movimento per i diritti civili, che lo hanno girato e montato tra 2001/2002. È un film-documentario, un saggio storico, una riflessione sul pacifismo, sul militarismo, sul nazionalismo hindu, sulle caste, sui dalit. Ma anche sul mondo globalizzato quale s’annuncia a Hiroshima e fa tappa a Ground Zero.[13]

Mi soffermo su questo punto perché sono convinta che una mappa, seppur parziale, della produzione culturale indiana non può sottrarsi a una riflessione su cinema (dai capolavori di Satyajit Ray all’odierno cinema parallelo – bengali, tamil, keralita – a quello ormai noto che va sotto il nome di Bollywood) e video, sia in una prospettiva storica, sia nell’articolazione produttiva attuale, da cui emerge ciò che già appariva evidente in ambito letterario, ovvero che la ricerca – antropologica, storica, sociale – e la sperimentazione artistica si intersecano e si intrecciano, sicché diventa difficile, ad esempio, non vedere quale sia la ricaduta in essa degli studi postcoloniali e dei subaltern studies cui gli studiosi di questo paese, residenti in India e fuori dall’India, hanno dato sostanziali contributi. Penso ovviamente a Gayatri C. Spivak, Arjun Appadurai, Dipesh Chakravarty, Homi Bhabha, Shaid Amin, Partha Chatterjee; ai saggi di critica letteraria di Meenakhsi Mukherjee; ma anche a un editore-intellettuale come il compianto Ravi Dayal, una specie in estinzione nell’occidente delle grandi concentrazioni editoriali, che ebbe il coraggio di fondare e seguire in prima persona riviste fondamentali come «Subaltern Studies» e, con altro obiettivo e su altri temi, «Civil Lines».

E penso a case editrici dichiaratamente femministe come Women Unlimited[14] e Zubaan[15] a Delhi, Stree & Samya[16] a Calcutta. Penso a Seagull[17], sempre a Calcutta, che sta traducendo in inglese l’opera omnia di Mahasveta Devi. Penso a riviste preziose e innovative come «Gallerie»[18] e «The Little Magazine»[19]. Questo per dire del metodico lavoro di trasmissione, di scambio, di sintesi culturale che avviene nel subcontinente.

Probabilmente il pluralismo linguistico, insieme alla storia, quella antica quanto quella recente, alimenta il fervore culturale del subcontinente; porta a ridimensionare il proprio punto di vista nel momento stesso in cui, dovendolo esporre, lo si deve anche tradurre. Comunità unite dall’appartenenza etnica e religiosa ma separate dalla lingua, per convivere hanno necessariamente acquisito una duttilità che, se non arriva ad eliminare le ingiustizie del sistema castale né a risolvere i drammi dei conflitti comunalisti, aiuta tuttavia a indagare e capire, e contribuisce a creare un tessuto fitto di iniziative, un intreccio stretto tra attivismo politico e impegno intellettuale.

In quest’ottica mi sembrano esemplari, e perfettamente coerenti due lavori esposti a Documenta11, Kassel 2002, che vorrei brevemente descrivere.

Il primo è un documentario di Amar Kanwar, A Season Outside. Il regista indaga il modo in cui vengono messe in scena – e costruite – le identità sul confine India-Pakistan, a Wagha. Dove ogni giorno ha luogo una sorta di cerimonia: cancelli vengono aperti e richiusi, tra l’uno e l’altro si crea un “dentro” che in realtà è una no-man’s land divisa in due da una sottile linea bianca sul terreno. Le due comunità rese nemiche dalla storia si ritrovano così ad assistere “da fuori” alla cerimonia, mentre in quella terra di nessuno i militari celebrano la loro doppia performance: da un lato sanciscono un confine in nome della rispettiva nazione, dall’altro mettono in scena il “maschile” che nazione e famiglia impongono loro. La stessa immagine di maschile su entrambi i lati della linea bianca: ma la divisa ridondante, la rigida teatralità dei movimenti che l’obiettivo scruta da vicino e il movimento di macchina sembra quasi incalzare, smentisce un maschile che si vorrebbe marziale e ne sottolinea il travestitismo, ne fa una grottesca pantomima osservata da una folla d’occhi mitemente assiepati dietro ai cancelli, ovvero “fuori dal luogo della messa in scena”. Kanwar sottolinea l’assurdità del confine con l’assurdità del maschile preposto a segnarlo difenderlo. Poco dopo, ribaltandoci su un altro tipo di confine, ovvero all’interno del più grande campo profughi tibetano in territorio indiano, a Delhi, il regista ci costringe a misurarci con un’altra tradizione, altri comportamenti, un maschile che non si piega alla violenza, ma non la esercita.

Un lavoro coltissimo, molto coerente e sottile quello di Kanwar, al centro del quale ci sono tutti i grandi temi all’ordine del giorno: confini, caste, diritti dei tribal e dei dalit, conflitti comunalisti, distruzione del territorio: The Many Faces of Madness (1998). Pazzia ampiamente documentata, oltre che dai suoi lavori, da quelli di altri filmaker militanti quali Rakesh Sharma (Aftershocks – The Rough Guide to Democracy - 2002), Sanjay Kak (Words on Water – 2002), Aradhana Seth & Arundhati Roy (Dam/Age - 2002)[20].

28° 28’ N / 77° 15’ E: 2001-2001 (An installation on the Co-ordinates of Everyday Life in Delhi) è il titolo della complessa installazione esposta, sempre a Documenta 11 - dal RAQS MEDIA COLLECTIVE, un gruppo di artisti multimediali con base a Delhi. La loro installazione offre molteplici possibilità di interpretare l’esperienza dello spazio urbano. Osserva il farsi e disfarsi dei territori urbani. Disponibile su Internet, Co-ordinates Delhi vuol essere un’occasione interattiva in cui il singolo cittadino, spostando il punto d’osservazione, un segnale stradale, l’ora di osservazione, il mezzo di locomozione, modifica le coordinate d’uso della città, «tessuto urbano connotato da innumerevoli abusi ambientali, sociali e politici».Due esempi, che mi riconducono alla riflessione sulla labilità dei confini e sul loro diverso uso simbolico e narrativo:

- la parete interna di una casa demolita che diventa muro esterno. Quello che all’interno era ascrivibile all’ordine della decorazione, portato all’esterno diventa graffito, muta significato, si offre come spazio di una diversa comunicazione;

- le terrazze, uno spazio privato, segreto seppure all’aperto (topos ricorrente nella letteratura indiana; si potrebbe dedicare un intero saggio alla vita che si svolge in quegli spazi ora minuscoli, di fortuna, a volte progettualmente vasti e privilegiati, sempre abitati), viene qui ripreso dall’alto, quindi svelato. Indagato abusivamente dall’occhio della camera diventa spazio pubblico, e così perdendo la sua funzione, diventa luogo da cui fuggire per riconfinarsi all’interno. Questa volta in trappola. Non è un caso, credo, che la figura che vediamo dapprima stupita, poi impaurita per quell’occhio inatteso che dapprima la spia dall’alto, poi s’avvicina, la guarda, l’incalza, sia una donna, che si vede sottrarre il solo spazio non strettamente codificato dagli usi domestici. Confinata 0° N / 0° E: fuori dal tempo?

Tre narrative diverse (quelle di Kanwar, del RAQS e di Patwardhan & Duhru), tutte per immagini, che pongono questioni cruciali sulla percezione che abbiamo del territorio, su come il suo disegnarsi e/o svanire interferisce con l’identità e con i modi della narrazione.

Ostinandomi in questo itinerario non canonico, vorrei invitarvi a condividere il piacere di due sorprendenti lezioni: una lezione di cinema che ci viene da Amartya Sen, premio Nobel per l’economia; e una lezione di storia che ci viene da P.K. Nair, storico del cinema muto ed ex direttore dell’archivio cinematografico di Pune.

Per chi, come me, sia appassionato di cinema, quella di Amartya Sen è una lezione straordinaria (e in questo caso l’inglese lecture rende meglio l’idea di una lettura comunicata ad altri, un’interpretazione quasi ad alta voce). Lo studioso, l’economista, guarda Calcutta, la legge per come appare nei film di Satyajit Ray, somma, non sovrappone il proprio sguardo a quello del grande regista, e racconta la città in cui entrambi sono nati e cresciuti, la esamina in quel bianco e nero che più di ogni altro colore le appartiene e ce la restituisce con una ricchezza di significati e sottintesi che un’analisi puramente filmica non saprebbe darci. Sen si fa spettatore per ricomporre il proprio sguardo frammentato dagli approcci disciplinari e ritrova la città nella sua interezza di luogo geografico ed entità storica e sociale, culla di cultura e di arte.[21]

Quanto a P. K. Nair, nel suo fondamentale The Caste Factor in Indian Cinema, fa una lettura a mio parere esemplare delle rappresentazioni, ora realistiche, ora metaforiche o simboliche, del sistema castale nel cinema indiano: «Le radici religiose del cinema indiano datano dalle sue origini. Poco tempo dopo che i fratelli Lumière, il 7 luglio 1886, presentarono il nuovo fenomeno, la macchina del cinema, all’Hotel Watson di Bombay, parecchi impresari locali che possedevano quella nuova macchina presero a registrare su pellicola la realtà che li circondava. Le loro percezioni erano totalmente diverse da quelle dei colleghi stranieri, che nelle loro prime produzioni – e forse anche in seguito – si lasciarono catturare dagli aspetti esotici e mistici del paese. Fu del tutto naturale che Dhundiraj Govind Phalke, conosciuto come Dadasaheb Phalke, pioniere della cinematografia indiana, traesse dall’inesauribile magazzino della mitologia indiana il materiale per la prima storia indiana portata sullo schermo, King Harischandra (1913), mentre il suo celebre collega statunitense D.W.Griffith, per il capolavoro La nascita di una nazione (1914), guardò invece alla storia americana e alla guerra civile. […] Il “mitologico”, per Phalke, non era un semplice veicolo per trasportare un pubblico ingenuo in un mondo di fantasia popolato di dèi, dee, demoni e celesti damigelle, bensì un modo per renderli consapevoli dei problemi della vita quotidiana e offrire degli strumenti per affrontarli. In questo senso, nel contesto indiano, il patrimonio mitologico ha la stessa importanza che hanno i film neorealisti in occidente.»[22]

Sganciandosi dall’esotismo dello sguardo occidentale, collocando le caste in un preciso contesto storico, religioso e socio-culturale, e aprendo il confronto con i maestri del cinema statunitense ed europeo, Nair ci pone di fronte a una questione di metodo e ci costringe a prendere posizione rispetto a un confine interpretativo sia delle forme sia dei contenuti dell’enorme, e ormai più che secolare, produzione cinematografica indiana. Il che dovrebbe indurci a guardare con più attenzione e con qualche cautela critica i film e i documentari che giungono finalmente più numerosi dal subcontinente.

Chiudo questa soggettiva e senza dubbio lacunosa mappatura con un argomento che richiederebbe un discorso a sé. Nel mezzo secolo seguito alla seconda guerra mondiale, un periodo che in Europa, prima dei conflitti nei Balcani degli anni ’90, avevamo l’abitudine di considerare “di pace”, negli altri continenti si sono combattute guerre spaventose, le guerre di liberazione nazionale hanno alimentato violentissimi conflitti etnici e/o religiosi in molti casi divenuti endemici, i colpi di stato hanno fatto il resto. Un elenco anche sommario degli orrori sarebbe lunghissimo, e s’allunga ogni giorno: da ogni angolo della mia memoria spuntano nomi, luoghi, immagini…

Elemento comune a ogni conflitto è la rivendicazione nazionalistica compiuta sul corpo delle donne, in nome dell’etnia o della religione, o di entrambe. Ogni tradizione inventata affonda le sue radici in un doppio sopruso fisico il cui territorio è il corpo dell’Altro, più spesso dell’Altra, mentre sul terreno si tracciano confini arbitrari.

In India e in Pakistan le studiose femministe si dedicano da anni a un lavoro di ricostruzione storica, di documentazione e raccolta di testimonianze delle donne che furono vittime della violenza comunalista [23] – ma il passato remoto è un eufemismo dopo i massacri e le violenze avvenute in Gujarat nella primavera del 2002.[24] Obiettivo di queste ricerche è quello di riportare alla luce una memoria di genere della Partizione e del dopo, memoria lungamente taciuta, a rischio d’essere cancellata, e che ora si rivela straordinariamente affine a quella delle donne vittime di altre guerre, altre partizioni più recenti.[25] Dunque doppiamente significativa. Soggetto storico negato, le donne vittime di quella violenza, tanto le vedove e orfane quanto le donne rapite (abducted in inglese: per una volta più esplicita, l’etimologia latina del verbo descrive bene l’atto di “portare via” dei corpi femminili allo scopo di sottrarli al ruolo riproduttivo nella propria comunità e imporre loro la riproduzione della e nella comunità nemica), nel dopo Partizione diventano oggetto, sia in India che in Pakistan, di programmi di “social reconstruction”, oggetto della cura di uno stato che si fa guardiano e paterfamilias.

«Recuperare le “loro” donne, se non la terra, divenne allora una potente affermazione di virilità hindu. […] Nulla del genere accadde quando il rapimento riguardava donne hindu rapite da uomini hindu, o donne musulmane rapite da uomini musulmani. Il che ci porta a concludere che in tali casi non c’era stata offesa alla comunità o alla religione, non era stato compromesso l’ “onore” di nessuno.»[26]

Non cittadine dunque, non individui, solo corpi femminili destinati – una volta “riscattati” – a una difficile sopravvivenza. Rifugiate in patria, in molti casi rapite due volte e costrette a umilianti conversioni, queste donne hanno conservato memorie che impongono sostanziali revisione storiografiche.

Ciò che in questa sede mi interessa sottolineare è che una riflessione sul rapporto fra territorio e definizione identitaria non può prescindere dall’ordinamento di genere. Le testimonianze finora raccolte in India e in Pakistan (ma le ricerche in corso dimostrano che lo stesso vale per i Balcani, il Ruanda, la Cecenia) impongono di raccontare una storia diversa, di valutare con gli occhi di chi ne fu oggetto i programmi di riabilitazione, in che termini vennero gestiti e quali contraddizioni aprirono; confermando che un’esauriente narrazione di quella Partizione comincia solo ora ad essere scritta.[27] La letteratura può contribuire a far luce su quel passato. Raccontando, come fa Bapsi Sidhwa nel romanzo Ice-Candy-Man[28], storie che la vergogna aveva reso indicibili, la letteratura può produrre conoscenza e riaprire a posteriori il discorso storico interrotto per mancanza di fonti, o mai aperto per non mettere in discussione l’ordine patriarcale. E chi traduce quelle voci, e le narrazioni che ne nascono, deve necessariamente rispettare parole e silenzi, balbettii e grida. Come potrebbe altrimenti essere, la traduzione, un’abitazione pacificamente condivisa, un bermaniano «albergo nella lontananza»? E così facendo, narrazione e traduzione potrebbero anche ricondurci a una più pacifica geografia.

«What is home? The place I was born? Where I grew up? Where I live and work as an adult? Where I locate my community […] my people? Who are my people? Is home a geographical space, a historical space, an emotional, sensory space? Home is always crucial to immigrants and migrants […] I’m convinced that this question – how one understands and defines home – is a profoundly political one. Political solidarity and a sense of family could create a strategic space I could call ‘home’.»[29]

«L’esiliato ha l’impressione che la condizione dell’esilio abbia la struttura del sogno. D’un tratto, come in sogno, compaiono alcune facce che aveva dimenticato, che forse mai ha incontrato, alcuni spazi che sicuramente vede per la prima volta, ma ha l’impressione di conoscerli per qualche motivo. Il sogno è un campo magnetico che attira immagini dal passato, dal presente e dal futuro. All’esiliato da sveglio compaiono d’un tratto facce, avvenimenti e immagini attratti dal campo onirico; all’improvviso gli sembra che la sua biografia sia stata scritta molto tempo prima di quando poi non avvenga, che l’esilio perciò non sia il risultato di circostanze esterne né una sua scelta, ma quella di una coordinata che il destino già da tanto tempo ha tracciato per lui. Preso da questo dolce e appassionato pensiero l’esiliato inizia a sbrogliare quei segnali sconnessi, crocette e nodini, e all’improvviso gli sembra di leggere nel tutto un’armonia segreta, la logica circolare dei simboli.»[30]

Una specularità di posizioni, tra Chandra Mohanty e Dubravka Ugrešić, insieme poetica e politica, e di fronte alla quale, come traduttrice, voglio mettere chi leggerà questo scritto, poiché negli specchi, girando appena lo sguardo, si ottiene una visione quasi a 360°, un cerchio dickinsoniano, un vasto orizzonte che smantella i luoghi comuni e impone di conoscere e far spazio all’Altro/a, per creare uno spazio comune e quindi ricreare un proprio spazio. Che non è soltanto quello fuggevole dell’ombra. Chi traduce pensa necessariamente i rapporti delle lingue tra loro, non può non pensare i rapporti tra chi quelle lingue le parla, non può non cogliere gli innesti, le fratture, i mutismi improvvisi. Non può non interrogarsi sulle ragioni che li hanno provocati, non può non udire i rumori di fondo. Le esplosioni cancellano i corpi e azzerano le ombre. E poiché «le parole possono costare delle vite, è solo giusto che quanti lavorano con le parole prestino scrupolosa attenzione a ciò che dicono».[31]

Questo mi pare oggi il compito precipuo del traduttore. «La traduzione non è che un’apertura di senso, mai una promessa di esaustività» scriveva tempo addietro Rada Iveković.[32] Chi, come me, traduce scrittrici/tori dei paesi d’oltremare e d’oltreoceani capita di sostare a lungo nella lingua, tra le lingue, in cerca di un nesso, un link, che non sempre è linguistico o semantico. Attiene invece precisamente e legittimamente al rispetto di una storia e alla ricreazione di un diverso immaginario. Del resto, ripercorrendo a ritroso la vita di questa paroletta minuscola, link – Ariele dell’Oxford Dictionary – e sommando insieme anche solo una parte dei significati che ha acquisito nel tempo, ricaviamo qualcosa che val la pena di raccontare, perché potrebbe essere l’epitome del mestiere di tradurre. Se in old English, infatti, un link era “a gently undulating sandy ground near a seashore”, per oltre due secoli (1500-1700) lo troviamo usato come “wick” e di lì a poco come “ring, a part of a chain” nonché come “a mean of travel or transport between two places”. E non è forse proprio su un terreno sabbioso e ineguale vicino a una riva che si muove chi traduce, orientandosi con la luce effimera di uno stoppino, ben sapendo di essere anello di una catena e veicolo da cui può dipendere non solo l’attendibilità, dunque la recezione e il piacere di un testo, ma la vita stessa? Chi traduce è cittadina/o di questo mondo, tenuta/o a movimenti rigorosi sorretti dall’etica mite di chi non solo connette, ma lascia consapevolmente socchiusa una porta.

 
Una precedente versione di questo saggio è stata pubblicata - con il titolo “Fuori canone. Letterature, cinema, video nell’India contemporanea: una mappa impossibile” - in Emanuela Casti e Mario Corona (a cura di), Luoghi e identità. Geografie e letterature a confronto, Bergamo University Press, 2004.



[1] Cfr. Nayantara Sahgal, «India as Fiction: a Personal View», contributo della scrittrice al convegno, «India. Nationalism, Democracy, Development, Interculturalism», Università di Bologna 27-29 novembre 1997, in occasione del cinquantesimo anniversario dell’indipendenza dell’India.

[2] Sul progetto e le architetture di Chandigarh esiste una letteratura sconfinata, ma la mia riflessione sull’uso e la ridefinizione di spazi interni ed esterni in una città divenuta contraddittorio simbolo dell’India moderna è stata influenzata in modo particolare da una mostra fotografica che vidi alcuni anni fa. Cfr. Piergiorgio Sclarandis, Chandigarh. Le Corbusier in India, Cartiere Miliani Fabriano 1993.

[3] Mi riferisco al « Seminario sulle Partizioni» organizzato da Rada Iveković, professore associato di filosofia, all’Università di Paris VIII, nell’anno accademico 2001/2002.

[4] Cfr. Amitav Ghosh, Estremi Orienti, trad. dall’inglese di Anna Nadotti, Einaudi, Torino 1997, p. 3.

[5] Da una conversazione con Ritu Menon, studiosa e editrice. Questa posizione è suffragata da una recente affermazione di Etienne Balibar riferita al contesto europeo:« La vera lingua europea non può identificarsi con nessuna lingua particolare. La lingua europea è la traduzione, intesa come paradigma dell’incontro tra lingue e culture diverse, come pratica attiva della multiculturalità e dell’interculturalità» (Scuola di Senigallia: inaugurazione dei “Cantieri della democrazia”).

[6] Cfr. Shashi Deshpande, Small Remedies, Penguin, Delhi 2000; Piccoli rimedi, trad. dall’inglese di Luisa Corbetta, Giunti, Firenze 2002, pp. 44-45.

[7] Cfr. The Tongue Set Free, Women Writers Speak about Censorship, WORLD/Asmita Project 2002.

[8] Rispetto al rapporto fra lingua inglese e lingue indiane nel periodo coloniale (quando la crescita del movimento nazionalista si accompagna allo sviluppo del romanzo nelle lingue locali), e nel periodo postcoloniale quando si assiste invece allo sviluppo del romanzo in inglese) , si veda il saggio di M. Mukherjee, La narrativa indiana, in Il romanzo, vol. II° (a cura di Franco Moretti), Einaudi, Torino 2002, pp. 502-503.

[9] Cfr. l’introduzione al primo dei tre volumi sopra indicati.

[10] Cfr. Bishakha Datta (a cura di), And Who Will Make the Chapatis?, Stree, Calcutta 1998; e Anita Agnihotri, Forest Interludes. A Collection of Journals & Fiction, trad. dal bengali di Kalpana Bardhan, Kali for Women, Delhi 2001.

[11] Cfr. Nayantara Sahgal, A Day in Shadow, 1971; Il giorno dell’ombra, trad. dall’inglese di Anna Nadotti, Einaudi, Torino 1995, p. 36.

[12] Lagaan ha vinto il premio del pubblico al festival di Locarno 2001, e nel 2002 è stato candidato all’Oscar quale miglior film straniero. Monsoon Wedding ha vinto il Leone d’oro al Festival di Venezia 2001.

[13] War and Peace ha vinto il premio speciale della giuria al Festival Cinemambiente, Torino 2002 (www.cinemambiente.it).

[17] Seagull Books, 26 Circus Avenue, Calcutta, <seagullfoundation@vsnl.com>

[20] Questi film-documentari sono stati presentati nella rassegna «Global Vision», Festival Cinemambiente, Torino 2002, alla quale hanno partecipato i registi e la scrittrice Arundhati Roy, tutti militanti del Narmada Bachao Andolan: il movimento per la difesa del fiume Narmada.

[21] Cfr. Amartya Sen, Our Culture, Their Culture. Satyajit Ray and the Art of Universalism, in Italo Spinelli (a cura di), Indian Summer, 56° Festival Internazionale di Locarno - Olivares, Milano 2002, pp. 15-23. Anche in Amartya Sen, Laicismo indiano, trad. dall’inglese di Armando Massarenti, Feltrinelli, Milano 1998.

[22] Cfr. P.K. Nair, The Caste Factor in Indian Cinema, in Italo Spinelli, ibid., p. 54.

[23] Con il termine comunalismo si indica, in quest’area, l’uso politico dell’appartenenza a una comunità - etnica, religiosa, castale. Le conseguenze di questa forma di manipolazione fondamentalista si sono manifestate in tutta la loro gravità soprattutto dopo la distruzione della moschea di Ayodhya, nel dicembre 1992, che provocò un’ondata di violenze interreligiose e il drammatico consolidarsi del movimento della hindutva (supremazia della cultura hindu).

[24] Cfr. Amrita Kumar e Prashun Bhaumik (a cura di), Lest We Forget: Gujarat 2002, World Report in association with Rupa, Delhi 2002. Si veda anche, nel mensile «Biblio», n.7-8, 2002, il dossier sui massacri in Gujarat (www.biblio-india.com).

[25] Cfr. Rada Iveković e Julie Mostov (a cura di), From Gender To Nation, Longo Editore, Ravenna 2002.

[26] Ritu Menon, Do Women Have a Country?, in: ibid., p. 51.

[27] Cfr. Ritu Menon & Kamla Bhasin, Borders and Boundaries. Women in India’s Partition, Kali for Women, Delhi 1998; Urvashi Butalia, The Other Side of Silence, Penguin India 1998; Sudhir Kakar, The Colours of Violence, Penguin India 1996. Si vedano inoltre: «Transeuropeennes» n.° 19/20 inverno 2000/2001, dossier «Divided Countries, Separated Cities», imprescindibile per chi voglia riflettere su questo tema (www.transeuropeennes.org); «Leggendaria» n.° 26, 2001, dossier «Confini» (www.leggendaria.it).

[28] Bapsi Sidhwa, Ice-Candy-Man, Penguin, 1988; La spartizione del cuore, trad. dall’inglese di Luciana Pugliese, Neri Pozza, Vicenza 1999.

[29] Chandra Mohanty, Defining Genealogies. Feminist Reflections on Being South Asian in North America, in AA. VV. Our Feets Walk the Sky: Women of the South Asian Diaspora, Aunt Lute Books, 1993.

[30] Dubravka Ugrešić, Il museo della resa incondizionata, trad. dal serbo-croato di Lara Cerruti, Bompiani, Milano 2002, pp. 26-27.

[31] Si veda la prefazione di Amitav Ghosh alla raccolta dei suoi saggi, Circostanze incendiarie, trad. dall’inglese di Anna Nadotti, Neri Pozza, 2006.

[32] Rada Iveković, " La Traduction permanente ", in Transeuropéenes, n° 22, p. 121-145.

Anna Nadotti

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